La fine del mestiere del boia


Buonasera a tutti voi, mi sia concesso l'onore della vostra compagnia e il piacere di raccontarvi una storia. Se vi aggraderà, mi ripagherete con una moneta o un pezzo di pane, così che io trovi un po' di ristoro tra di voi brava gente.
La vicenda che vi racconterò vide come teatro il villaggio dove nacqui e gli attori che vi presero parte, furono perlopiù gli abitanti dello stesso. Se qualche loro discendente sia ancora in vita, non mi è dato sapere, e per dirla tutta, l'idea che un po' di quel vino nella brocca davanti a me finisca dritto qui nel mio bicchiere vuoto, mi tenta di più che lo scoprir se il mare o qualche terremoto, si siano inghiottiti quel luogo disgraziato e tutta la gente da poco che lo abitava.

(gli versano del vino)
...aaaah grazie mille, grazie davvero.

Quando ero in giovane età, il mio piccolo villaggio era un posto sereno, anche il boia faceva una vita piuttosto tranquilla, quel disagio che aveva accusato in giovinezza, per il lavoro che gli toccava fare, non era ormai che un lontano ricordo per lui. Anzi, il senso di raccapriccio della gente per strada, o la paura istintiva dei bambini che si rintanavano nei vicoli al suo passaggio, erano diventati per lui quasi un motivo di orgoglio.
Nelle piovose domeniche autunnali, l'unico sole, era per tutti, lo scintillio della sua ascia. In quei momenti egli poteva godere dell'applauso della folla, sentendosi in cuor suo quasi soddisfatto del suo lavoro infausto. Certo il suo volto era coperto – e lui avrebbe voluto diversamente – ma il villaggio era piccolo, ed egli poteva esser certo che in realtà, tutti sapessero bene chi si celava sotto quel cappuccio.


La vita andò avanti così per molti anni, finché i fatti presero una piega diversa. Con la prosperità arrivò il demone della ricchezza e con lui, gli uomini più inclini all'accumulo che al lavoro, divennero presto i padroni delle terre che un tempo erano state di tutti. Essi fecero studiare ai loro figli l'economia e la gestione delle proprietà, che questi ultimi, cominciarono ad amministrare con spietata destrezza. Nessuno si ribellò perché parlavano di progresso, dicevano di voler far loro del bene e...che volete, la gente povera e ignorante è colpevole solo di essere ingenua e naturalmente ben disposta verso tutti.
I nipoti dei padroni divennero quelli che oggi noi chiameremmo gli uomini d'affari. C'erano poi quelli che prestavano i denari senza far nulla, costoro si aggiravano per le strade del paesino come se fosse stato il loro salotto, a queste carogne oggi daremmo oggi il nome di banchieri.
Grazie al sudore della fronte di quelli che lavoravano nei campi, la ricchezza continuò ad aumentare, neanche a dirlo però, il benessere della povera gente non crebbe affatto, anzi, diminuì.
In un'altra manciata di anni, quel villaggetto che giaceva sdraiato sulle colline come un placido contadino durante la siesta, divenne un piccolo mostro di pietra e metallo, un paese, che cresceva e crebbe ogni giorno di più, in altezza e larghezza ma soprattutto in frastuono.


Il boia morì, ma suo nipote continuò la tradizione di famiglia. Il lavoro per lui era incessante, tanto che la sera egli crollava letteralmente sul suo giaciglio, con le mani sporche di sangue e il cappuccio ancora in testa.
Con l'aumento della povertà le cose peggiorarono, avvenne infatti, che tutte le domeniche, nella piazza del paese, non fosse più solo l'omicida ad appoggiare la testa sul ceppo, sempre più spesso succedeva infatti, che dato il numero crescente di affamati, molti diventavano ladri e qualche malcapitato finisse sotto la sua scure cieca e impietosa. La dubbia colpevolezza di questi poveracci – oltre a un certo senso solidarietà – regalavano a tutti uno spettacolo triste, che sortiva l'unico effetto di aumentare la rabbia comune. Così, in quella stessa piazza piena di gioia ed applausi appena qualche tempo prima, il circo mortale e sanguinoso del metallo contro la carne, non regalava più sorrisi di giubilo a nessuno.
L'espressione sul viso del boia mutò, il suo sguardo divenne buio e gravoso. Col tempo le cose per lui si misero male, tanto che si rintanò in casa, uscendo solo per fare il suo sporco lavoro. Nelle rare occasioni in cui che era costretto ad andar per faccende, ad esempio, per procurarsi un po' di vino o del pane, veniva deriso e insultato da tutti, sempre che pietre o pitali pieni di bisogni, non lo centrassero da qualche finestra. Egli si sarebbe difeso certo, ne aveva ben diritto e potere, ma è inutile cercare altri colpevoli, quando sei tu ad essere il più odiato da tutti.
Fu così che si ruppe l'ago della bilancia che segnava gli equilibri storti di quella piccola comunità. Una nera scintilla d'odio schioccò e un incendio cominciò a divampare, tra gli sguardi torvi della gente per le strade, un tetro silenzio di ombra calò, di notte, come di giorno.


Il signorotto più ricco del paese, nonché padrone di quasi tutte le terre circostanti, capì di dover chieder consiglio ai suoi pari dei paesi vicini. Il problema ormai era grave, ma il disprezzo reciproco e la natura malfidata degli uomini ricchi, fecero sì che passasse ancora qualche tempo.
Aggressioni e rapine divennero un vero disagio, anche per quei signori mediamente ricchi che oggi chiameremmo borghesi. Tanto che questi, in fine, decisero di presentarsi a casa del signorotto, adducendo come scusa una visita di cortesia e, con la gentilezza che è inusuale ai padroni, ma ben nota ai cani che un padrone hanno scelto, presentarono le loro rimostranze. Qualcuno disse: "È mai possibile che non si possa passeggiare nella piazza del paese senza essere aggrediti o importunati da qualche straccione?". Altre lamentele seguirono, ognuno segnalava la presenza di rapinatori o mendicanti un po' dovunque e a turno, tutti elencarono le angherie che avevano subito. Poi si congedarono come sempre, senza mordere o abbaiare troppo, ma facendo intendere che se il canile fosse rimasto pieno di randagi, i cani di razza avrebbero cambiato padrone, naturalmente, portandosi appresso tutto il loro denaro.


A questo punto il signorotto dovette cedere, mise da parte l'orgoglio e convocò presso di se i signori più ricchi della contea. Una settimana dopo arrivarono tutti in pompa magna, e con quell'aria tronfia e stanca di chi trova faticoso anche il solo esistere, scesero dalle loro carrozze coprendosi gli occhi con fazzoletti profumati.
Dopo un lauto banchetto e un'altrettanto degna bevuta, si spostarono nel grande salone e cominciarono a discutere. I toni si rivelarono da subito più accesi del previsto, il padrone di casa capì che il problema era comune, la criminalità e il numero di poveracci in aumento erano un vero flagello per tutti. Erano la ricchezza ed il benessere ad essere in gioco, e man mano che la discussione diventava più accesa, una certa agitazione si diffondeva tra gli invitati. La paura di perdere tutto e l'avidità, appaiono infatti come un segno d'appartenenza distintivo, tra le genti di cotal rango. Già da subito fu quindi chiaro, che chi non si fosse trovato d'accordo con la maggioranza, rischiava di essere allontanato per sempre, o peggio, sarebbe stato privato della propria ricchezza (magari proprio attraverso l'esclusione da quegli stessi salotti). Così era, e se mai si fosse mostrato di aver fede diversa da quella del dio dell'accumulo, sarebbe stata punizione certa, per chiunque!
La riunione durò buona parte della nottata, ed in molti partorirono le idee più bislacche, qualcuno disse "Mura!", qualcun altro rispose in tono lamentoso: "Le abbiamo appena buttate giù, non vorrete mica tornare a vivere dentro i castelli e poi cosa? Indossare armature?". La moglie di un ometto rotondo e paonazzo in viso disse: "Non abbiamo faticato tanto per vederci negato il panorama che è nostro di diritto, vogliamo la libertà di percorrerlo in lungo e in largo come ci pare". Poi un altro confessò: "Hanno ucciso il mio boia ed ho dovuto trovarne un altro in fretta e furia", tutti lo guardarono con aria greve e preoccupata. Un'orca imbellettata divorando un pasticcino disse: "Certo è che il problema non si porrebbe, se riuscissimo ad assicurarci una maggior protezione". Un uomo alto e segalino, scostando con la mano il fumo di un sigarillo disse: "E come potremmo fare? Io di certo non posso permettermi un esercito... ", vedendo poi che tutti lo squadravano con supponenza, aggrottò le narici e aggiunse con una punta di orgoglio: "Non ancora perlomeno!". Un altro arrotolandosi i baffi fece: "Un esercito no di certo, ma se i boia fossero più d'uno e potessero rendersi utili anche per, chessò io, camminar lungo le strade di notte per assicurarsi che siano praticabili... ". Allora l'orca di prima, quasi in preda a un'eccitazione fanciullesca aggiunse: "Sii! E imprigionare i manigoldi, fargli la guardia!". Ci fu poi un momento di silenzio, a quel punto gli occhi del padrone di casa si illuminarono, e preso dalla foga, andando verso il centro della stanza, con un gesto inconsulto della mano fece cadere alcuni bicchierini pieni di liquore da un tavolino: "Ma si, ci sono! Possiamo reclutare dei poveracci e farglielo fare! Vedrete che per poche monete, qualcuno disposto a menar le mani lo si trova sempre". 
Il confabulare continuò ancora un po', ma una volta fugati gli ultimi dubbi, le perplessità lasciarono il posto agli sguardi consenzienti. Si accordarono quindi, perché sapevano tutti che la situazione richiedeva urgenza e poche esitazioni. In fine i sorrisi di cera colarono sulle strette di mano a sigillare il patto.  Dopo un ultimo bicchiere di Porto, si stabilì che l'indomani si sarebbero affissi, nei rispettivi paesi, gli avvisi per il reclutamento. Di lì a poco si sarebbe verificata la lungimiranza e l'arguzia di quel piano.


All'indomani di quel giorno, nacque quella che è oggi la più grande delle sventure per tutti gli uomini. Il più piccolo di tutti gli eserciti, ma il peggiore per meschinità e abusi. Il baluardo il cui unico ideale è proteggere gli interessi dei signori e la ricchezza. Il mestiere dei poveri che bastonano i poveri, dei carcerieri che imprigionano e fanno la guardia ai loro simili, degli uomini che ricevuto un ordine, non hanno più scrupolo alcuno per innocenza o colpevolezza.
In quel giorno infausto e maledetto essi nacquero, ed erano vestiti di rosso, armati di arco e frecce, che presto divennero bastoni corti. Di notte si aggiravano con rossi e scuri mantelli, proprio come la sua birra signora, ed è al rosso che devono il loro nome, e seppur allora non ne avessero avuto ancora uno, facemmo tutti molto presto ad affibiarglielo. Per coloro che vivevano di stenti, ma che avrebbero preferito morire di fame, o rubare, piuttosto che diventare cani da guardia, quella era la feccia del mondo, quelli che ancora oggi tutti chiamiamo gli sbirri.

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